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Splendore dei “Jewels” di Balanchine alla Scala e nel mondo intero

Diamonds coreografia George Balanchine foto Brescia e Amisano ©Teatro alla Scala

MILANO – “Jewels”, di George Balanchine (1904-1983), è un balletto tripartito che, se pure privo di una trama, si trasforma in uno specchio di “gioiose malinconie” per il tempo passato, e conserva uno slancio nervoso puntato diritto al tempo presente in cui venne creato (1967).

Sia che lo si esamini al microscopio nella versione del Teatro Marijnsky, del New York City Ballet, del San Francisco Ballet, del Royal Ballet a Londra, oppure nell’edizione rivista e colorata da Christian Lacroix per l’Opéra di Parigi, l’esordio è sempre lo stesso: il sipario si alza sulla delicatezza sfumata delle pagine di Gabriel Fauré (1845-1924), le melodie dalla suite per Pelléas et Mélisande (1898), e pagine dalle musiche di scena per Shylock (1890).

Dal quel momento in poi, anche a Milano, per il Balletto del Teatro alla Scala, dove “Jewels” è in cartellone dall’11 al 24 marzo, tutto, per 2 ore e 20 minuti, non sarà che bellezza, grandeur, fascino, geometriche armonie.

In ciascuno dei tre episodi, il balletto evoca uno stato d’animo, e trasporta il pubblico in un punto, dissimile dagli altri, della storia e della tecnica del balletto. È una sorta di ventaglio dei molti stili conosciuti e dei “luoghi della vita” di Balanchine, un’opera capace di mostrare al pubblico la profondità e l’ampiezza del suo lavoro coreografico. Come un vettore, “Jewels” trasporta il pubblico e i danzatori in una allusiva dimensione, e trasforma questi ultimi in pietre preziose, inseriti e accolti in “paesaggi della memoria”, composti e accordati secondo i crismi e il “profumo” della pura danza che si leva nell’aria sin dalle primissime battute.

Rubies coreografia George Balanchine foto Brescia e Amisano ©Teatro alla Scala – Virna Toppi Claudio Coviello

Nelle tre sessioni, corrispondenti ad altrettanti colori e gioielli, il balletto si svolge con una tale vastità di impianto da far pensare ad un affresco, un ispirato murales di rievocazioni e cogito che vola alto, e ci “parla”, grazie all’eleganza nitida dei passi e alla pulizia del fraseggio. La radiosità che lo investe si nutre di linee sostenute, cambi di ritmo, inversione di ruoli, rapidi passaggi del testimone nella presenza in scena e nel suo dominio, con evoluzioni incalzate da torrenti di musiche, calibrate secondo la teoria del pas sur note (il passo sulle note), sigillo aureo d’ogni composizione in Balanchine.

Jewels” è il manifesto principe di un’estetica inflessibile e infallibile, miracolosa per la sapienza delle forme e l’organizzazione razionale dell’intera struttura. Il tutto scandito in sequenze, ogni volta variate, di passi a due, a tre, a quattro, a cinque, ensemble e via a correre. Il sali e scendi di numeri e combinazioni sembra alludere ad altrettante sfaccettature e carati, alla bellezza delle pietre lavorate e al loro “approdo” finale: braccialetti, collane, anelli, tiare.

Diamonds coreografia George Balanchine foto Brescia e Amisano ©Teatro alla Scala – Nicoletta Manni Timofej Andrijashenko

Queste stesse forme, con il loro colore e il luccichìo, sono accennati, in una metamorfosi lunare, nei gesti dei suoi ballerini, dei solisti in particolare, catturati e riflessi nel brillìo esorbitante della sola parte superiore dei costumi, con il bianco immacolato sotto, per i maschi. Vennero ideati da Madame Barbara Karinska (1886-1983), la costumista ucraina, naturalizzata statunitense, a lungo sodale di Balanchine

I costumi erano così finemente lavorati, come opere d’arte a pieno titolo, che alcuni di essi sono stati esposti in vari musei. Inoltre, il lavoro scrupoloso realizzato da Karinska è accreditato per averli fatti durare a lungo, nonostante il sudore e la fatica della danza. I suoi disegni, i ricami e la scelta dei tessuti li hanno resi stabili e “danzabili”, dimostrando che i corpi all’interno dei costumi meritavano il suo massimo rispetto. Alla domanda sulla sua grande attenzione per i dettagli, quasi stravaganti, lei rispondeva: “‘Cucio i miei vestiti per ragazze e ragazzi che li fanno ballare, i loro corpi meritano il mio lavoro”.

Le scene, all’esordio, avevano i tocchi essenziali di Peter Harvey (1933), scenografo, costumista e pittore, nel cui lavoro per la danza sono inclusi progetti per il New York City Ballet, il Metropolitan Opera Ballet, lo Zurich Opera Ballet e molti altri. Harvey, nel 2015, ha pubblicato un preziosissimo “Working For Balanchine”, il diario quotidiano che l’artista teneva mentre lavorava per Balanchine. I non pochi “mal di pancia” e gli infiniti problemi di collocazione, misura e prospettiva richiesti per la realizzazione di “Jewels”, sono da lui testimoniati con il più franco candore e una puntuale aderenza ai fatti. Confermano il senso e le infinite difficoltà dell’impresa a suo tempo compiuta a New York.

Emeralds coreografia George Balanchine foto Brescia e Amisano ©Teatro alla Scala

Eppure ancora oggi, in “Jewels”, tutto è occasione di festa (e misurata rivalità) per le stelle di prima grandezza solitamente utilizzate per rappresentare il balletto: lussuria per gli occhi. È un’immagine che si rispecchia nel turbinìo delle gemme e delle collezioni di Claude Arpels (1911-1990), disposte nelle vetrine della ditta Van Cleef & Arpels sulla Quinta Strada, a New York, motore d’ispirazione per questa creazione. Secondo il critico Clive Barnes, l’idea di un balletto basato sulle gemme è da attribuirsi proprio al gioielliere Claude Arpels, anche se è ben documentato che Balanchine aveva già giocato con l’uso di costumi ispirati ai gioielli per il suo balletto del 1947, “Le Palais de Cristal”.

“Mi sono sempre piaciuti i gioielli”, diceva Balanchine, “dopotutto sono un orientale, provengo dalla Georgia, nel Caucaso. Mi piace il colore delle gemme, la bellezza della pietra”. Su espresso invito di Arpels, Balanchine visitò il suo showroom, e gli venne permesso di avvicinarsi alle gemme preziose.

Eppure Balanchine insisteva, in una intervista, sul fatto che il balletto non era fatto, in realtà, di “gioielli”. “Il balletto non ha nulla a che fare con i gioielli”, dichiarò. “I ballerini sono semplicemente vestiti come gioielli”. Karinska aveva creato un look distinto per ogni atto che corrispondeva all’ispirazione coreografica di Balanchine: romantiche gonne in tulle al polpaccio per gli smeraldi; materiale che svasava sui fianchi sia degli uomini che delle donne nei rubini; il classico tutù piatto del Balletto Imperiale Russo per i diamanti.

La prima sezione, “Emeralds”, si apre con dieci ballerine, altrettanti smeraldi, incastonati nei corpetti verdi a fare da contorno alle due gemme-étoiles. La statuaria immobilità della posa è resa dinamica dalla sinuosa, leggera postura ad “S” del corpo, con la testa lievemente piegata a lato. È un tratto tipico della firma di Balanchine, ricorrente in questo come in altri balletti: suggerisce e aggiunge una nota di vivacità al fermo immagine. Il brano evoca Parigi, la fluida coreografia delle ballerine dell’epoca romantica, nella fuga dei pas de bourré suivi, che dislocano i corpi nello spazio, e l’imponenza del sistema di formazione accademica francese espresso nella danse d’école.

Per Balanchine, l’intera tessitura poetica della sequenza, con la squisitezza dei gesti, la morbidezza degli abbandoni, è un omaggio, sottinteso, ma chiaro, alla Francia: alla verde e bucolica dolcezza dei suoi paesaggi, alla tradizione del balletto accademico e delle silfidi, nate nel 1831 sul palcoscenico dell’Opéra di Parigi. “Emeralds” è la “Francia dell’eleganza, del comfort, della haute couture, del profumo”.

Fauré è noto per i grumi di poesia che si addensano nelle sue chansons, e per la musica a carattere religioso, da lui composta ed eseguita in qualità di maestro di coro e organista alla Madeleine, chiesa frequentata dai più benestanti fedeli di Parigi. La musica da lui creata per il teatro, in particolare le selezioni che Balanchine ha scelto per “Emeralds”, è molto meno conosciuta. Sia “Pelléas et Mélisande” che “Shylock” furono composti quando l’età d’oro del balletto a Parigi era tramontata da decenni, mentre ad un altro capo del mondo, in Russia, erano gli anni culminanti del Balletto Imperiale, guidato da Marius Petipa (1818-1910).

La musica sensuale di Fauré sembra a volte riempire l’aria come il profumo menzionato da Balanchine. Le ballerine l’attraversano con bourrée fluttuanti, camminano a passi decisi ma delicati, che a tratti assumono una nonchalance da folletti dispettosi. La sezione consiste in un pas de deux di apertura, con la prima coppia di protagonisti che si fa strada attraverso schemi sempre mutevoli del corpo di ballo. Poi ognuna delle ballerine protagoniste ha la sua variazione da solista, la seconda più sinuosa della prima. Secondo il critico Clive Barnes, la parte successiva, il pas de trois degli Smeraldi, “è la coreografia più fantasiosa di Balanchine…con i ballerini che fanno cose sorprendenti, musicalmente e fisicamente”.

Tutti i ballerini sgombrano il palco per far posto alla seconda coppia di protagonisti e al loro pas de deux: la sequenza procede leggermente, in cerchi ampi e morbidi, e attraversa il palco in una sorta di viaggio solitario, punteggiato da arti lunghi e vellutati, e sbilanciati svenimenti. Potrebbero essere una coppia innamorata se non fosse per i loro costumi ingioiellati e l’atteggiamento regale. La fine di “Emeralds” riporta i ballerini per un finale che si interrompe dolcemente, con le tre danzatrici in ginocchio, che guardano fuori dal palco.

Emeralds coreografia George Balanchine foto Brescia e Amisano ©Teatro alla Scala

Ancora oggi, come ieri, la triangolazione gemma-colore-compositore funziona, e si allarga al fuoco dei rubini per “Rubies”, su Stravinsky (Capriccio per pianoforte e orchestra). Il musicista la compose mentre si esibiva ancora attivamente come pianista da concerto. Il brano evoca i ritmi complessi del jazz americano e gli esperimenti tonali dei compositori d’avanguardia del XX secolo. Balanchine utilizzava la musica di Stravinsky sin da quando, giovane coreografo, era appena assunto da Serge Diaghilev per creare lavori per la sua compagnia, i Ballets Russes.

La pura libertà cinetica consegnata al passo a due della coppia principale, e il fitto diagramma dei passi, aguzzi, angolari e sincopati, per il solista e un corpo di ballo misto, è un caleidoscopio riscaldato dal rosso, sul quale soffia forte il vento dei musicals. È un tono che, inebriato di sollecitazione jazzistica, nella sensualità scherzosa che lo attraversa, privilegia energia e vivacità, gesti “capricciosi” e saltelli “irriverenti”.

È la stessa atmosfera newyorchese che, nel 1933, sorprese Balanchine, quando, da emigrante, sbarcò negli U.S.A: “Rubies” è un salto a pié pari nell’era del jazz in America. Edward Villella, che ha interpretato il ruolo maschile principale nel cast originale, fece anche dei parallelismi con “Fred Astaire, gli spettacoli di danza, la sfacciataggine dei nightclub di Broadway”. Per Balanchine, però, era “semplicemente la musica di Stravinsky”.

Si è parlato di “Rubies” come se questa fosse la lettera d’amore di Balanchine all’America, con i suoi ritmi ad alta energia e i colpi di scena inaspettati. La coreografia fa di tutto per confondere ogni aspettativa: usa piedi flessi, fianchi sporgenti, forme spigolose e continua ritmicità del movimento, che rende dinamica l’aria. I ballerini guizzano e scalpitano come gazzelle ebbre, per poi incrociare gli arti in passi a due e glissades deliziosamente “sghembi”; oppure si rincorrono come bambini, flirtano, maliziosi, e si catturano a vicenda in lampi di una possibile appartenenza o prigionia. Ma non è la sensualità a vincere: domina invece un senso dell’umorismo attribuito alla capacità di Balanchine di stratificare e articolare i gesti, resi neutri, scevri di emozioni, sì, ma scolpiti in un classicismo non convenzionale.

“Rubies” è coreografato per una coppia principale e una ballerina solista che, a turno, guidano un corpo di uomini e donne. La variazione per la ballerina include un momento in cui gli uomini la circondano sul palco, come se fossero in lizza per la sua attenzione. In un punto diverso della sezione, questi stessi uomini inseguono il protagonista: alcuni critici hanno scritto di un legame con i trastulli seriosi di bimbi impegnati, o il giostrare dei cavalli lipizzani lanciati in rodeo. L’equazione animalier è supportata dai pas de cheval che irrompono e filano in continuum; la loro spinta fisica non ha eguali, eppure mantengono un’aria di giocosità che ammorbidisce il limite della competizione. Il pas de deux è azione ed energia senza sosta con i ballerini che si guidano a vicenda mentre è la musica che li guida. Ancora: gambe con guizzi da cavallette spiritate tagliano l’aria, i torsi si contraggono, cambiano direzione, mentre il palco è illuminato da scintille.

Lo splendore dei diamanti si abbina a Čajkovskij, con gli ultimi quattro movimenti della Sinfonia n. 3 (1875). Le note aderiscono ad un corpo di ballo misto, con un pas de deux centrale, innervato da un ghiacciato erotismo, al tempo costruito per Suzanne Farrell (1945), leggendaria e irraggiungibile musa del coreografo. L’atmosfera, da calma ritrovata, da serenità raggiunta nell’empireo ora riconciliato dei cimeli, stretti fra cuore e mente, rievoca la prima gioventù, fino ai 20 anni, trascorsi da Balanchine a San Pietroburgo. Il colore bianco che tutto investe ricorda il fasto dei balletti imperiali, l’estro di Marius Petipa e i ballet blanc per lui realizzati dal suo assistente, Lev Ivanovič Ivanov (1834–1901), “l’anima della danza russa”.

La prima del balletto, il 13 aprile del ’67, per gli organici del New York City Ballett, annunciata come il primo esempio di balletto astratto a serata intera, fu accolta da uno strepitoso successo, con recensioni entusiastiche. In scena era dispiegata la mitologia americana del teatro di danza di quegli anni: Violette Verdy, Patricia Mc Bride, Suzanne Farrell, Edward Villella, Jacques D’Amboise, per dirne solo alcuni.

Quando anche l’ultima goccia di sudore si sarà dissolta in palcoscenico, alla Scala come altrove, e l’ultimo elettrone sarà sparito dal video, chi abbandona schermo e teatro ne esce con la chiara consapevolezza che nulla al mondo, forse, contiene in sé “più danza” di quanto ha appena visto. “Jewels” è il tempo perduto e ritrovato di altre ere, conosciute e amate viaggiando “da e “per” altri mondi, rispetto a quelli nei quali Balanchine è nato e cresciuto, e noi con lui.

Il balletto contiene in sé epoche, visioni e profumi, miti e contemporaneità, l’abbecedario del balletto accademico e, sottotraccia, un invito e una sfida ad esplorare, fronteggiare e accogliere comunque “il Nuovo”, quali che siano le forme, le espressioni e le cadenze con le quali “il Nuovo” si presenta.

Perché tutto, forse, è già dentro di noi, ed è iscritto nella eterogenea diversità delle nostre Storie, all’interno delle quali siamo compresi e travolti. Prima che una serata di danza raccolga dal suolo la nostra anima, la porti in alto, e ce la mostri.         Ermanno Romanelli

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