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MessiaHaendel di Paolo Mohovic sintesi drammatica e freschezza inventiva

Messiahaendel ph Stefano Mazzotta

PISA – C’è una bella profusione di danza, danza e danza, nel “MessiaHaendel” che Paolo Mohovic ha costruito per l’Eko Dance Project, guidato da Pompea Santoro, una solida “brigata” di giovani danzatori, ancora in formazione, ma carichi di tempra e tecnicamente ben limati. Ciascuno di loro, accolto nell’ampio palcoscenico del Teatro Verdi di Pisa, che ha ospitato il titolo nella  propria stagione, si impone e spicca per slancio, generosità ed accuratezza esecutiva.
Il “Messiah”, composto in lingua inglese nel 1741, secondo i crismi dell’oratorio barocco, in seguito sottoposto a infinite modifiche e aggiunte, tanto che non esiste più “la” versione originale, si ispira direttamente alla Bibbia, sopratutto all’Antico Testamento, dal quale è lanciata una profezia verso il Nuovo Testamento.

La scansione del lavoro è in tre momenti: Avvento, Passione, Morte e Resurrezione del Messia, la cui figura, al centro del dramma, è celebrata in sé, nel valore del proprio messaggio di salvezza per l’umanità. Senza seguire un binario cronologico, ma in un florilegio di metafore, espresse fra arie, cori e recitativi, le parole che vi campeggiano sono di consolazione, redenzione, invito alla conversione e gloria divina.

È ad una tesa corrispondenza per contenuti, punti capitali e spiritualità che rimandano le scelte del coreografo. Il quale, se pure riduce l’enorme complessità dello spartito (oltre due ore e mezzo), restituisce, in piena freschezza inventiva, una chiara sintesi drammatica del capolavoro di Haendel. Per allargare e approfondire il “respiro” del lavoro, Mohovic fa un ricorso, intelligente e rispettoso, a quanto già testimoniato sul tema “danza e sacro” dai maestri che, nel ‘900, lo hanno preceduto, ed hanno aperto nuove vie all’espressione coreutica.

Concatenazione di passi, asprezze e modulazione di gesti, cadenze ora morbide ora aguzze, svettano da una parte all’altra del lavoro, e recuperano “sapori” e stilemi in un elaborato ricamo di citazioni. Incastonate fra pathos e lirismo, si riconoscono certe adunanze in cerchio, care a Josè Limon e a Doris Humphrey; si sciolgono, si allungano e si piegano le file inclinate, mosse dal vento, di Mary Wigman; entrano e si impongono con irruenza guerriera fanciulle già scolpite in scena da Martha Graham. Ben al di là della copia, queste “tracce” ricreano suggestioni autonome, sono pulsanti di vita ed espressività nell’inclusione dinamica che ne fanno i giovani interpreti dell’Eko.

Non si distinguono con immediatezza didascalica, invece, ed è una scelta saggia, le attribuzioni di singoli personaggi dell’oratorio di Haendel, doppiate da singole voci. Rispetto al risvolto esplicativo, più popolare e sicuramente di facile effetto, Mohovic sceglie la sintesi di momenti ed emozioni, che si riversano a fiotti, e si esaltano nell’autorevolezza e nella cura “artigianale” con le quali il coreografo organizza la “macchina” teatrale.
E.R.

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