Piccolo e bello al DAP Festival sipario della danza internazionale

Gouneo-Kochetkova DAP photo Botticelli

PIETRASANTA – Vale ancora lo slogan “Piccolo è bello” per il DAP Festival a Pietrasanta, manifestazione che, nata solo sei anni fa, ha appena concluso, con ottimo successo, la sesta edizione.

Tornerà regolarmente il prossimo anno, il DAP, affrontando con coraggio e a testa alta mille difficoltà e problemi, soprattutto economici, dato il budget, limitato, e la mancanza di uno spazio performativo propriamente definito (teatro) del quale non dispone. Ma le autorità, il pubblico e i ragazzi delle scuole internazionali di danza che a Pietrasanta si ritrovano e si formano, per gli stages, vogliono solo ritrovare quell’atmosfera che li innamora, e noi con loro. 

Nel ricordo di poi, si è avuta la certezza, oggi rara e quanto mai confortante, che il DAP è soprattutto un luogo di incontro per vecchi e nuovi amici: “rifugiati” o persi, forse, in una baita di montagna, in una di quelle serate dove ci si ritrova dopo giornate passate a sudare e farsi cuocere dal sole, irraggiante durante le prove, per poi legare anima e cuore durante gli spettacoli.

 Il relativo isolamento della cittadina, e il sigillo, momentaneo, della solidarietà fra artisti, oggi sembrano ancora e sempre il lusso più prezioso: perché il tutto è umano, troppo umano, e perché nell’oscurità, della notte e dei brutti tempi che stiamo attraversando, le buone storie, e i buoni rapporti, fioriscono spontanei, a ricordarci che siamo ancora e solo persone, e siamo nati per sognare.    

Nell’onda del tempo che scorre inesorabile, il DAP, Danza in Arte a Pietrasanta, dimostra ad ogni appuntamento di saper aprire gli occhi sul mondo, per esaltare e unire nuove o semisconosciute realtà della scena di danza contemporanea, con aspetti e frammenti tradizionali del balletto, grazie alle dodici compagnie che si sono alternate nelle due settimane di programmazione. 

Il segreto del successo, che, di nuovo, ha conquistato il cuore dei cittadini e dei turisti che affollano la Piccola Atene della Versilia, è nella “formula” del Festival, unica in Italia: ai piedi delle Apuane, la volatile traccia della Danza e il solido fascino delle Arti figurative, del marmo in particolare, vanno in sinergia con escursioni e happening nelle piazze e negli spazi del borgo toscano, dove pubblico e artisti si incrociano.

L’ultima serata della rassegna, il Gran Gala ospitato sul palcoscenico de La Versiliana, ha sciolto come una bandiera le tante versatilità che il Festival si incarica di esplorare. In apertura di sipario, la scultura ad arco del Maestro giapponese Kan Yasuda, è sembrato un nuovo “Stargate”, monumentale porta d’accesso per altri mondi e stati d’animo, indagati dalla ballerina taiwanese Peiju Chien-Pott, nell’intensa coreografia in stile Martha Graham firmata da Adria Ferrali, direttrice artistica del Festival, già allieva della “Grande Madre” della danza moderna.

La concentrazione richiesta dal rituale, esperienza iniziatica, intreccio fra arte, natura e condizione umana, in una serata all’insegna della eterogeneità, ha ceduto il passo alle evoluzioni del balletto classico con Maria Kochetkova, étoile internazionale formata al Bolshoi, e l’afroamericano Osiel Gouneo, per un brillante frammento del “Don Chisciotte”, eseguito in perfetta tecnica classico accademica. Una maestria che la ballerina ha messo al servizio anche di “Once I Had a Love”, passo a due coreografato da Sebastian Kloborg, condirettore della rassegna, nel ritratto di un amore che con la sua forza unisce due anime fino a farle diventare una sola.

Altro “switch” nella tecnica moderna con Alice Klock e Florian Lochner, del collettivo-coreografico Flock, per la prima mondiale di “As I am”, esplorazione delle mutazioni e della ricerca di un sé più autentico, grazie alle acrobazie e al costante incrocio di ruoli, maschile/femminile, e alla conquista di nuove posizioni e contrapposizioni, in quella continua fuga di prospettive che è il primo traguardo della tecnica di danza moderna.

Autentico “dono di grazia” alle attese del pubblico è stato il “Bolero”, di Ravel, rivisitato e reso ancora più incandescente e sensuale, rispetto alla ritmica versione originale, dai sette interpreti della MM Contemporary Dance Company, guidati dal coreografo Michele Merola, piccolo grande uomo dalle pochissime, quasi sempre estorte, parole. Segno di un’attitudine essenziale, viatico per abbracciarne i pensieri e intenderne le suggestioni, sono come i suoi passi e gesti: entrambi scabri, obliqui, fulminanti, volteggiano nell’aria come una fitta e rapida serie di colpi di sciabola. Tagliano la gola allo spettatore impreparato.

Quelle sue cadenze, nutrite di “vento” e luci”, nude e crude, intrise di palpiti e immaginazione, dicono e si rinnegano, si lanciano e si ritirano, hanno coraggio e paura e pudore insieme. Sono un invito a sciacquare meno la bocca, togliere aria alle tonsille, privilegiare la visione e l’empatia. Non è la solita roba, fritta e rifritta, esaltata dalle solite “critichesse”. Perché i suoi fraseggi diventano fornitori, a tappeto, di grandi e scottanti sussulti, in un fuoco che scalda i nostri occhi e pensieri, intrisi di emozione e immaginazione, indispensabili per vivere anche in mezzo al peggio da cui siamo circondati.

È un’epica festa mobile quella concepita da Merola. Umile e “disordinata”, in realtà metronomica, è divisa in due momenti: nella prima si definisce la scena e la situazione; la seconda è un “mattatoio” senza sangue, dove i corpi reclamano i propri diritti, e si mangiano per intero il palcoscenico, in una sarabanda di dure, taglienti fisicità, giostrate fra prese, attacchi e contrapposizioni fra i sessi, rischiando anche lo “scandalo” della omoerotìa.

Sono quasi appiccicati i due generosi e belli “terruncielli” che, con l’immediatezza senza censure dei ragazzi del Mezzogiorno, si sfiorano, si palpano a distanza ravvicinata, si toccano e ancor più quasi si fondono: è un vortice, il loro, e quello collettivo, di muscoli, realizzato dentro, fuori e intorno un “muro” di cartone plissettato, sinuoso come una serpe, agito come un labirinto, ostacolo e rifugio d’ogni seduzione.

Il pezzo, “last but not least”, meta d’elezione per chi ama la coreografia vera, e non l’ordinario “giro del mondo intorno al mio ombelico”, che è cifra ricorrente nei mosci, debolissimi coreografi italiani, è stato accolto in un liberatorio trionfo dal pubblico. Era infiammata al calor bianco, la platea, ancora e sempre capace di stupirsi e rallegrarsi, nel profondo, come fanno i bambini, davanti alla vertigine di pagine nuove, spalancate sul Grande Libro del Mondo, e della Danza. 

 Ermanno Romanelli