L’eros, le maschere e la potenza ipnotica della danza di Hervé Koubi

Boys don’t cry foto Nathalie STERNALSKI

VERONA – Il coreografo franco-algerino Hervé Koubi è un tipo assai tosto, tanto quanto lo è ciascuno dei tredici, molto fisicati danzatori della compagnia che porta il suo nome, la Cie Hervé Koubi.

Il giovanotto la porta in giro per l’Italia, in questi mesi e nei prossimi, con diversi suoi titoli, distribuiti da Live Arts Management di Carpi. Koubi, nome ormai affermato in ambito internazionale, dopo una laurea in farmacia ha proseguito la propria formazione come ballerino con Jean-Charles Gil, Jean-Christophe Paré, Emilio Calcagno, tra gli altri. Nel 1999 entra a far parte del Centre Chorégraphique National de Nantes. In seguito collabora con Karine Saporta al Centre Chorégraphique National de Caen, e Thierry Smits Compagnie Thor a Bruxelles. Nel 2000 ha creato Le Golem, primo progetto con la sua compagine, ottenendo un rapido successo in tutto il mondo, con una nomina a Chevalier des Arts et des Lettres nel 2015.

Boys don’t cry foto Frédérique CALLOCH

Da allora collabora con Guillaume Gabriel, musicista e costumista, per tutte le successive creazioni: da Ménagerie (2002) a Les abattoirs, fantaisie… (2004), a Moon Dogs (2007). Nel 2009 collabora con la Compagnie Beliga Kopé della Costa d’Avorio alla creazione del lavoro Un rendez-vous en Afrique. Quel progetto africano segna un punto di svolta per Hervé Koubi. A partire dal 2010 comincia infatti a lavorare con un gruppo di dodici ballerini algerini e burkinabé che rappresentano l’embrione della futura Cie Hervé Koubi. È per e con questo gruppo di ballerini che Koubi creerà tutti suoi successivi lavori: El Din (2010-2011), Ce que le jour doit à la nuit (2013), Le rêve de Léa (2014), Des hommes qui dansent (2014), Les nuits barbares ou les premiers matins du monde (2015-2016), Boys don’t cry (2018), Odyssey (2019-2020). Parallelamente al lavoro di creazione per la sua compagnia, Koubi è regolarmente invitato dai centri di formazione professionale in Francia e all’estero.

Con le sue creazioni, a getto continuo, il coreografo ha confermato cifra e talento: vedi Les nuits barbares ou les premiers matins du monde (Le notti barbare o le prime albe del mondo), opera che la stampa internazionale ha riempito di superlativi, dedicata al tema dell’origine della cultura mediterranea.

Ce que le jour doit à la nuit foto Nathalie STERNALSKI

In scena Koubi solleva le ombre dalle notti barbare per mostrare l’alba di una cultura condivisa, in un’esplorazione potente e carismatica della storia millenaria del Mediterraneo. Koubi riscrive la storia portando sul palco la paura ancestrale dello “straniero”, dell’altro da sè, per rivelare la raffinatezza delle culture “barbare”. È di certo un lavoro originale, che unisce la potenza ipnotica della parata da guerra e la precisione di un balletto classico, portando agli occhi del pubblico ciò che di più affascinante c’è nell’incontro fra culture e religioni.

Koubi la racconta con queste parole: “Questa è una storia su un percorso, è sempre su un percorso…Mentre tentavo invano di cercare la riconciliazione con la terra dei miei antenati in Algeria, sono emersi nuovi legami. Legami che mi hanno permesso una comprensione più profonda del mio background e delle mie radici. Ho incontrato altri artisti, testimoni di una storia perduta. Ho incontrato quelli che amo chiamare i miei fratelli perduti. Ho riscoperto il desiderio di circondarmi di altri e sono tornato con la sete di creare questa nuova avventura.

Hervé Koubi foto Marie Aimée Mercier

Le notti barbare o le prime albe del mondo, nasce da questa storia impressionante e ineludibile del nostro bacino mediterraneo. Ho scelto di condividere questa strada che testimonia la mia volontà di raggiungere gli altri, di raggiungere l’ignoto combattendo le idee tradizionali che appiattiscono e spesso dettano il modo in cui vedere “noi e loro”. Noi i civili e loro, i nostri vicini, i barbari, dove l’etimologia spesso assume una connotazione peggiorativa.

Lo straniero ha sempre fatto paura. Una paura alimentata dal confronto con la propria ignoranza e frustrazione. Avrei quindi scelto di mostrare questa paura ancestrale dell’ignoto e del diverso per cercare e svelare la bellezza, la ricchezza e i valori nascosti dietro questi cosiddetti barbari sfidando gli stereotipi più radicati nelle nostre società occidentali.

Le notti barbare daranno il via a una nuova corrente sul fondo dell’oceano che ci allontani dal buio per aiutarci a raggiungere la luce della nostra storia comune. Ho scelto di spostare il mio sguardo verso ciò che ritengo sia più bello: la mescolanza di culture e di religioni, attraverso il tempo, mi permette e mi aiuta a tracciare le basi di una geografia comune sulla quale oggi ci troviamo, troppo spesso senza saperlo. Ho pensato…alle nostre origini comuni intrecciate nel Mediterraneo attraverso spagnoli, italiani, provenzali, orientali, occidentali, magrebini, romani, greci…Al Mediterraneo e alla sua luminosità, che può accecare come un segreto perduto. Quello dei nostri desideri e destini comuni”.

In scena i tredici danzatori, sul volto le maschere gioiello realizzate con i migliori cristalli Swaroski, fanno vorticare le loro gonne come dervisci, brandendo lame e coltelli al suono della musica sacra di Mozart e Fauré, miscelata con melodie tradizionali algerine, dialogando con il patrimonio musicale e spirituale dell’occidente. La loro sensualità virile, e la loro energia mozzafiato, evocano un’umanità intera di barbari: Persiani, Celti, Greci, Vandali e Babilonesi, quasi delle apparizioni da tempi remoti e oscuri, che hanno influenzato il grande crocevia di culture che è il Mediterraneo. Tutti questi elementi storici e culturali si mescolano, dal punto di vista stilistico, con il linguaggio della breakdance e dell’hip hop, reinventati in maniera spettacolare, in un mix di generi dalla sensualità quasi spirituale.

Senza un impianto narrativo, ma lavorando sulla presenza della carne e la potenza delle immagini, la compagnia si trasforma da esercito di guerrieri a corpo di ballo, o coro d’opera. Afferma ancora Koubi: “Les nuits barbares è un inno alla bellezza! Quella che, a dispetto delle guerre, scaturisce dall’unione, volta le spalle alle rivendicazioni identitarie, e prende il meglio di ognuno e rende omaggio alla storia, all’alterità e alle origini. È un inno al Mediterraneo; alle nostre origini comuni che si incrociano tutte nelle acque del Mediterraneo; alla nostra storia che, dopo più di tremila anni, testimonia un florilegio di culture la cui alterità ci unisce più di quanto ci allontani. Non importa se siamo algerini, spagnoli o francesi: siamo prima di tutto mediterranei, è questa la nostra appartenenza, ed è più antica delle nazioni!”.

Dopo il recente approdo ad Ancona, Teatro delle Muse, la compagnia ha proposto ancora “Les Nuits Barbares a Verona, Teatro Ristori, a Carpi, Teatro Comunale; il 23-24 aprile sarà a Ravenna,  Teatro Alighieri. Altro giro e altra corsa per “Boys don’t cry”, spettacolo che, visto lo scorso gennaio al Teatro Comunale Pavarotti/Freni di Modena, sarà il 25 aprile a Pesaro, Teatro Rossini, per la Stagione dello Sperimentale. La compagnia tornerà di nuovo in Italia,11 maggio, a Trento, Teatro Sociale, con “Ce que le jour doit à la nuit”, e il 13 luglio a Como, Arena Teatro Sociale, con “Boys don’t cry”. Infine, il 19 novembre saranno a Lugano, LAC, con “Odyssey”, e il 22 novembre a Vigevano, Teatro Cagnoni, con “Les Nuits Barbares”.

Ce que le jour doit à la nuit foto Nathalie STERNALSKI

Boys don’t cry, creazione 2018 di Koubi per sette dei suoi danzatori, costruito sulla base di un lavoro della scrittrice francese Chantal Thomas attorno a un’improbabile partita di calcio – terreno di “gioco” e di “danza” – è una riflessione sulla costruzione dell’identità in una società “chiusa”, attraverso momenti di testo parlato combinati allo stile caratteristico della compagnia, tra hip-hop e fluidità contemporanea.

Il tema è cosa significa scegliere di diventare ballerino quando sei un ragazzo, specialmente quando provieni da Paesi dove la differenza di genere pesa ancora tanto sui destini individuali. Il lavoro gioca sul cliché del giovane uomo che preferisce la danza agli sport tipicamente “maschili”, e sulla tensione che questa scelta può causare con la famiglia e con la società. Solo abbracciando la gioia trascendente della danza, questo gruppo di giovani uomini riuscirà ad affrancarsi dalla mascolinità tossica a cui la cultura dominante della società di appartenenza li vorrebbe destinati.

Boys don’t cry è uno sguardo, allo stesso tempo serio e giocoso, sul diventare adulti in una società dove la via predestinata non è quasi mai quella desiderata. Ma in senso più ampio lo spettacolo è anche un messaggio sulla libertà di essere se stessi al di là di ogni condizionamento.
Ermanno Romanelli