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Alla Biennale di Venezia i voli di Wayne Mc Gregor

Mkhail Baryshnikov e Jan Fabre

È una serie ininterrotta di voli d’aquila il “pensiero in azione” di Wayne McGregor, il coreografo inglese che, fresco del suo primo anno di direzione artistica della Biennale Danza, a Venezia, illumina e riempie il 15° Festival Internazionale di Danza Contemporanea (23 luglio-1 agosto).

con la complessità, l’ampiezza e la plastica “malleabilità” che sono propri dell’Arte e del suo talento, tanto visionario quanto informato, lucido e coraggioso nelle scelte realizzate, a fronte di una disciplina in continuo rinnovamento. Il calendario delle attività è talmente fitto ed espanso che è necessario consultare il sito www.labiennale.org, così che basta il primo appuntamento a qualificare il tutto: “Not Once”, in prima mondiale il 23, riunisce per la prima volta due artisti totali, Mikhail Baryshnikov e Jan Fabre, che hanno lavorato 4 anni per completare l’opera. “Installazione d’arte con film”, basato su un monologo scritto da Fabre e interpretato da Baryshnikov, “Not Once” svela, nelle undici stanze immaginarie di una mostra fotografica, il rapporto platonico tra il soggetto e una fotografa che, per anni, ne ha manipolato il corpo, rielaborato in diverse entità. Il lavoro multimediale, concepito per il cinema, esplora le relazioni tra un artista, il suo lavoro e la vita, il suo pubblico. In definitiva, l’equilibrio tra dare e ricevere, dipendenza e indipendenza.

È questa la prima di tre opere, votate alle “intersezioni tra corpo, tecnologia, cinema, realtà virtuale e/o aumentata, intelligenza artificiale, scienza”, visibili per tutto l’arco del Festival. Il pluripremiato “Tom”, di Wilkie Branson, è definito “opera di danza cinematografica animata digitalmente” che fonde il linguaggio del b-boying con tecnologie all’avanguardia: animazione digitale, projection mapping, surround, modelli 3d fatti a mano, tecniche di fotogrammetria, sistemi di chroma key capture. Riuscendo a veicolare una storia emotivamente potente attraverso immagini sbalorditive, “Tom” è un lavoro sulla tristezza, la solitudine, l’isolamento, il racconto del viaggio di un uomo, interiore e reale al tempo stesso, che presta il suo volto illeggibile a una fila di uomini chiusi nella stessa carrozza di un treno con la stessa imperturbabilità. Un viaggio alla ricerca di sé, tra angoscia, desiderio, nostalgia, illusione.

“Future self” è una “scultura luminosa vivente” che coinvolge il compositore Max Richter, con Wayne McGregor e la sua compagnia. Il movimento dei ballerini, come dei visitatori, anima 3 videocamere in 3d che catturano le forme e le rispecchiano su un reticolo di alluminio composto da 10.000 led che emettono luce in tutte le direzioni. È frutto delle ricerche di Hannes Koch e Florian Ortkrass, che nel 2005 fondano il collettivo artistico Random International, attivando collaborazioni attorno a progetti sperimentali.

Intrepido nel mostrare “molto di ciò che si può fare con la danza e attraverso la danza oggi”, Mc Gregor articola il Festival in sette passi/tempi: spettacoli dal vivo con coreografi e compagnie da tutto il mondo, installazioni all’insegna del multilinguismo, le nuove energie di Biennale College, la ricca produzione di opere filmate sulla e con la danza, le collaborazioni fra discipline in seno alla stessa Biennale, le conversazioni con gli artisti e le commissioni di nuova danza. 10 giorni di attività con oltre 100 artisti, tutte prime per l’Italia, due prime mondiali e tre prime europee. Ne sono protagonisti gli artisti di una scena dal vivo senza confini, ricca delle forme e dei contenuti del mondo: “radicals”, secondo McGregor, espressione di una danza dal segno incisivo che, attraversata dalle urgenze del mondo, parla al nostro tempo.

Attinge invece al mosaico delle antiche culture mediterranee delle sue radici algerine Hervé Koubi: riti, melodie, storie, tradizioni che mixa in maniera spettacolare con il linguaggio della breakdance e dell’hip hop, permeato dall’energia sensuale dei suoi 15 danzatori. Il ritorno alle origini coniugato con i nuovi saperi del corpo in un misto di appartenenza e sradicamento ispira anche “Odyssey”, spettacolo che celebra la femminilità nell’incontro con il maschile attraverso la partitura dei movimenti dei danzatori, con la partitura fusionale di suoni di Natacha Atlas, vocalist ebreo-egiziana della scena internazionale, tra echi panetnici e il ritmo dell’elettronica europea.

Già presente alla scorsa Biennale Danza, Marco D’Agostin ritorna quest’anno con “Best Regards”, assolo nello spirito graffiante di Nigel Charnock cui è dedicato. Una lettera impossibile “a qualcuno che non risponderà mai”: al creatore, prematuramente scomparso, di veri e propri one-man show che esorbitano dai limiti della performance, in un impetuoso e sfrontato impasto di teatro, danza, cabaret politico.

Pam Tanowitz, tra le massime coreografe del nuovo millennio, con una conoscenza della danza a 360 gradi, che da Balanchine arriva a Cunningham via Viola Farber, usa tutti gli strumenti che la danza passata e presente le offre per smontarne i meccanismi e ricrearli sotto nuove forme. “New Work for Goldberg Variations”, in tandem con la pianista Simone Dinnerstein, è un nuovo lavoro su un pezzo che è stato terreno di sfida per musicisti e coreografi e dove ora le limpide architetture dei danzatori sembrano illuminare di nuova luce quel distillato di emozioni che sono le Variazioni Goldberg di Bach.

La danza come oggetto scenico è l’originale approccio del pittore, scultore, artista della performance Olivier de Sagazan. Del 2001 è “Transfiguration”, dove il corpo dell’artista trasfigura sotto strati di argilla. È un opera estrema in continua espansione, che incrocia danza teatro e arti plastiche, rappresentata oltre 300 volte in 20 Paesi diversi e con oltre 6 milioni di visualizzazioni su Youtube. L’evoluzione dell’opera nell’ultima decade vede accentuarsi l’aspetto performativo: de Sagazan cambia prospettiva, distribuendo la performance del funzionario in giacca e cravatta che si sfigura in una creatura mostruosa a sei danzatori. Nasce così un nuovo spettacolo, dove “l’effetto di gruppo, insieme al loro modo istintivo di muoversi conferisce a questi corpi mascherati una stranezza e una forza che non avrei mai immaginato. Vi ho visto, ha detto de Sagazan, l’embrione di dipinti impressionanti e nel tempo mi è diventato ovvio che avevo qualcosa da fare, come un pittore con i suoi colori e i suoi pennelli. Dipingere con corpi ricoperti di fango e che hanno l’aspetto di sculture”. Di residenza in residenza diventa “La Messe de l’Âne”, che si rifà alla medievale festa dei folli, presentato in prima assoluta a Venezia

E’ un “nudo d’artista” che si svela progressivamente agli occhi dello spettatore, il lavoro firmato dalla basca Iratxe Ansa,  artista indipendente dopo la scuola di Cranko e l’attività con le compagnie di Forsythe, Kylián, Duato, Ek, Naharin, McGregor, Pite, insieme all’italiano Igor Bacovich, formato all’Accademia di Danza di Roma e poi al Codarts di Rotterdam. “Al desnudo” è un laboratorio dinamico che prende il via da un classico duetto per poi crescere in un limpido processo di decostruzione che mette a nudo trama e meccanismi della creazione nel suo stesso farsi. L’originale duo si amalgama alle note del Concerto n. 2 per violino di Philip Glass, con le musiche di Johan Wieslander e le luci e le immagini, che sovrappongono live e pre-registrato, di Danilo Moroni.

Radicale è il grido di battaglia di “A Room with a View”, firmato in coppia da (La)Horde e Rone. E’ il grido di rabbia e sofferenza di una generazione che al senso di catastrofe oppone la forza del gruppo con le sue lotte e i suoi conflitti, la violenza ma anche la vitalità della ribellione. Uno spettacolo travolgente e adrenalinico con corpi che volano, scossi dal pulsare dei suoni scolpiti dal dj Rone, attorno a cui si addensa l’orda di ravers, sopravvissuti al collasso della civiltà. Al centro una visione politica della danza che mette in primo piano forme coreografiche della rivolta popolare, dai rave al ballo tradizionale ai jumpstyle di internet, nutrita del pensiero di Alain Damasio, scrittore di fantascienza, e la sua guerra dell’immaginario.

Pam Tanowitz + Simone Dinnerstein, “New Work for Goldberg Variations”, The Joyce, Tuesday, December 10, 2019. Credit Photo: Erin Baiano

Una “danza fuori dalle regole” nei temi e nei modi è quella di Oona Doherty, nome nuovo della danza europea, Leone d’argento di questa edizione del Festival, a Venezia con “Hard to be Soft – A Belfast Prayer”. Non ortodossa è la scelta di mettere in scena lo spaccato di una comunità, quella della sua infanzia a Belfast, con i suoi orizzonti limitati da imposizioni culturali, sociali, religiose. Delle classi lavoratrici, praticamente assenti dai palcoscenici della danza, la Doherty coglie la dimensione quotidiana, la loro violenza e vulnerabilità, i tic, gli stereotipi e i vizi, ma anche il coraggio, la forza e l’energia.

“Somewhere at the Beginning” è l’assolo in cui Germaine Acogny, pioniera della danza contemporanea africana, Leone d’oro alla carriera del Festival, fa i conti con il proprio passato, quelle radici che sono il punto di partenza di tutta la nostra vita, e che si incarnano nelle figure arcaiche che l’accompagnano. Partita dall’Africa, esule in Europa e poi di ritorno alla sua terra d’origine, lo spettacolo della Acogny è anche un dialogo tra l’Occidente e il continente africano, alla ricerca di identità che non è mai qualcosa di dato o di acquisito. Il regista franco-tedesco Mikaël Serre sceglie di rendere questo gioco della memoria attraverso l’intimità, evitando le semplificazioni dell’ideologia.
Ermanno Romanelli

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