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Al Teatro Bellini di Napoli le “Tracce” selvagge di Vandekeybus

foto di Danny Willems e di Wim Vandekeybus

Nei giorni 8 e 9 febbraio, il Teatro Bellini di Napoli (http://www.teatrobellini.it) ospita il genio travolgente di Wim Vandekeybus in “Traces”.

È l’ultima sua produzione, un pezzo nel quale il vulcanico coreografo olandese si guarda indietro, e segue le tracce interiori, appunto, delle proprie scoperte e intuizioni, e dei propri inizi, lì dove si è acceso il suo percorso artistico: il dramma e i conflitti legati agli impulsi e agli istinti, il gioco delle energie e dell’intensità di queste, del limbo e dei confini che le contengono. “Tracce”, dice l’artista, “che sono più vecchie dell’umanità e della sua memoria. Storie interiori che si sviluppano oltre il linguaggio, e che possono essere raccontate solo dagli impulsi della danza e della musica”. La cui partitura è qui composta da Trixie Whitley, Marc Ribot, Shahzad Ismaily, Ben Perowsky e Daniel Mintseris.

Come è nello stile elettrizzante, nella ben definita tradizione di sovversione dell’ordine scenico costituito di Ultima Vez, la compagine creata dal coreografo, regista, film maker nel 1986, anche questa performance è densamente popolata di immagini potenti e di bellissimi paesaggi sonori, che risuonano a lungo dopo che le luci si sono spente. Su tutto, s’impongono la pura e violenta energia fisica, l’esuberante forza vitale con le quali la compagnia butta all’aria il canovaccio coreutico preordinato e il fiorire delle casualità e delle improvvisazioni; sono eseguite con la ben nota facilità da atleti saldamente preparati, pronti ad affrontare ogni sfida, fra ascensioni, salti, equilibri e squilibri d’ogni sorta. Tuttavia, ciò che maggiormente impressiona, in Ultima Vez, non sono l’esibita sicurezza, né il severo controllo della forma fisica, ma la capacità di mantenere intatte e a lungo tali doti.

“Tracce”, precisa Wandekeybus, “è prodotta dal Festival Internazionale delle arti Europalia Romania. Devo confessare che, all’inizio, ho visto la cosa come una specie di trappola. Era qualcosa che, volontariamente, non avrei scelto di fare. Ma in qualche modo ho anche trovato stimolante la “commissione”. Sono andato in Romania e, a parte visitare città e musei, ho conversato con molte persone. Il paese soffre ancora il peso di una lunga e dura storia politica, e repressione e senso del totalitarismo dominano ancora in gran parte dell’arte in Romania. Ma io ho capito subito che tutto questo non doveva essere al centro dei miei sforzi lì. Era un aspetto diverso della Romania quello che mi affascinava: la sua natura selvaggia.

I Carpazi sono considerati gli ultimi frammenti di natura totalmente selvaggia esistente nel nostro continente, con la presenza di orsi, lupi e linci più che in qualunque altro angolo d’Europa. Questo ha davvero stimolato la mia immaginazione. Più che dei conflitti politici, avevo bisogno di parlare del conflitto degli elementi: una foresta, e la strada che l’attraversa. La performance si apre con questa immagine. Invece che rappresentare semplicemente una situazione aneddotica, questo è molto più di un simbolo per me. Perché quello che mi interessava era il conflitto tra foresta e strada. Un cervo sulla strada è una strana anomalia, non fa parte di ciò che ci aspettiamo di vedere. Ciò che abbiamo completamente dimenticato è che la foresta era lì prima di noi, e che il cervo ne è in realtà l’abitante originale. In realtà, è la strada che è l’elemento strano nell’immagine. È questa la prospettiva che voglio cambiare. La strada è un confine della stessa natura? Oppure tracce invisibili ma indelebili della natura giacciono represse sotto quella strada? Il tema che è sottostante a molte delle mie esibizioni riguarda proprio le cicatrici, spesso violente, che la cultura e la natura lasciano l’una all’altra”.

Ermanno Romanelli

 

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