Si è appena conclusa a Pietrasanta (Lu) la quinta edizione del Dap Festival, Danza in Arte a Pietrasanta, rassegna che ha concentrato in una manciata di giorni una vetrina di ospiti di rilievo internazionale.
Kseniya Mikheeva Projects, San Pietroburgo; Orly Portal, Israele; Saltmarsh Dance, Stati Uniti, e, dall’Italia, Equilibrio Dinamico Dance Company, Company Blu, Lyric Dance Company, Kinesys Contemporary Dance Company.
Il suggestivo Chiostro di Sant’Agostino, ambiente di sovrana e centenaria bellezza, posto nel centro storico della cittadina versiliese, ha ospitato quasi tutti gli spettacoli, oltre alle “Invasioni”, ovvero i flash mob realizzati in alcuni punti centrali di Pietrasanta, fra piazza Duomo, piazza Carducci, il pontile a Marina di Pietrasanta, per un totale di venti esibizioni, fra serate a pagamento e show estemporanei. Per tutta la durata del festival si sono tenute le master classes all’aperto sul palcoscenico de La Versiliana, festival di decennale presenza a Marina di Pietrasanta. Maestri dei ragazzi giunti da tutto il mondo per lezioni di contemporaneo, modern, Graham e balletto classico, erano Maria Kochetkova, Sebastian Kloborg, Michele Merola e molti altri.
Ideatrice del Festival è Adria Ferrali, a lungo danzatrice presso la Martha Graham Dance Company, generosa animatrice dell’impegnativo progetto. Dap e Ferrali si collocano di slancio al di fuori di ogni rigido cliché, delle inamidate convenzioni e dei mille pregiudizi che fermano in fotocopia il panorama festivaliero italiano. Scopo del Dap è creare in Versilia un evento culturale di ampio respiro, e saldare intorno a quello una comunità di professionisti della danza, nazionale ed internazionale. Ci si rivolge a volti e pratiche da porre come vessilli di un luogo e uno spazio, emblemi rinnovati di un territorio e della sua artisticità, storicamente ancorata, da secoli, alla cultura, all’estro e alla pratica ingegnosità legate al marmo e alla sua elaborazione.
In un contesto così solidamente definito, e apparentemente inamovibile, la danza afferma la propria natura, l’intima ragione d’essere che è, da sempre, sua inclinazione: smuovere acque e pietre ferme, travalicare confini, affermare empatie, simbiosi e sinergie nuove. Il fine che si è posto il Dap, pur nel suo piccolo budget, è già stato raggiunto: in questa quinta edizione del festival, le presenze di artisti e allievi sono cresciute in modo esponenziale, in uno scambio di forze e vivacità che non vuole fermarsi all’estate né riposare sugli allori.
In un incontro reso necessario da vicinanza e rispettive vocazioni, nel palco immerso nella pineta della Versiliana, si è proposto il Galà finale del Dap, con contributi variamente interessanti, che hanno inaugurato, in contemporanea, il sipario della Versiliana. In apertura di serata, “On to pop”, coreografia della stessa Ferrali, ha scelto Tamara Fragale e Isaies Santamaria per una tersa ricerca sul movimento, compresa tra oscillazioni, sobbalzi e sussulti in un tappeto elastico, con esplosioni, in palcoscenico, di passi a due dove, in un filo rosso di abbandoni e nuovi incontri, si è resa costante l’intesa e la tensione fra i due interpreti.
“Formami”, disegnato da Mauro Astolfi per la propria compagine, Spellbound Contemporary Ballet, “una delle compagnie italiane più amate e dal respiro internazionale”, danzato da Maria Cossu, Mario Laterza, Mateo Mirdita, si è proposto come “una virtuale scatola nera ritrovata dopo un incidente”. Smarrimenti di identità e scatti di nuova energia hanno confermato la ben nota cifra del coreografo, attento ad una dimensione “immaginifica” della danza.
Importante si è rivelato il contributo di Sebastian Kloborg, coreografo presso il Royal Danish Ballet, a Copenhaghen. Con Maria Kochetkova, étoile della danza classica di fama internazionale, che ha offerto una breve prova della propria classe nelle variazioni da “Raimonda”, il balletto su musiche di Glazunov, Kloborg ha costruito un affascinante passo a due che descrive il bianco e nero di una relazione. Incontri, slanci e fughe, proiezioni di sé all’esterno, intimità rivelate e le mille dolorose contraddizioni che sono l’ossatura di ogni legame, hanno inframezzate il palcoscenico con una bella scrittura coreografica, degna di essere ripresa, ingradita e approfondita per la densa qualità del segno.
A chiudere la serata erano momenti estratti da “Gershwin suite”, coreografia di Michele Merola, per Dylan Di Nola, Lorenzo Fiorito, Paolo Lauri, Nicola Stasi, Giuseppe Villarosa, compagine maschile di un disegno più ampio e articolato. Nelle note di George Gershwin, Merola trova ed esalta una colonna sonora che sintetizza note pagine dell’autore americano, da “I Got Rhythm” e “Fascinating Rithm” a “The Man I Love”. Il coreografo, se aggira ogni riferimento alle drammaturgie e al “senso” contenuti nei brani, scelta che appiattirebbe in un musical di secondo grado il balletto, lavora invece per “tempesta e assalto” sulle sollecitazioni in lui suscitate dalle musiche.
Il risultato, e il ventaglio delle emozioni che lui propone, è prettamente fisico: “pagano”, carnale, quasi viscerale. Anche qui, come in ciascuna delle altre sue coreografie, pur mutate per contesto e musiche, Merola punta ad una continua conferma di alta e variata competenza tecnica, che trasforma i suoi danzatori in elettrizzanti asterischi di luce. Da coreografo provetto, l’artista riunisce gli interpreti in un “corpus” coerente, li travolge in scariche di adrenalina, saldati come sono in un connubio perfetto tra le “nuvole” immaginate, e desiderate, del movimento, e la rispettiva resa carnale, muscolare. Ed è anche grazie all’affidamento pieno nelle eternamente potenziate capacità dei “suoi” ragazzi che il disegno coreografico si compie, e riempie gli occhi.
Anche quando i danzatori sono “virgulti” e “forze nuove”, da rodare, il corpo esulta, vivaddio!, e tutti affilano con grinta le proprie armi, fra determinazione ed esito, pienamente convinti della proposta e del talento del proprio autore. La ragione è presto detta: Merola vince perché convince. Diversamente dalla grande maggioranza dei colleghi italiani, da molto “vorrei, ma non posso, e nemmeno so come si fa”, egli non vende mai aria fritta: da bravo “artigiano”, formatosi ad una buona scuola, egli conosce le mille sapienze del mestiere e le sue ragioni d’essere, comprese fra la vita reale, il palcoscenico e la sala prove, e le restituisce in affreschi privi d’ogni manierismo, che non lasciano adito a dubbi perché ogni volta diretti e chiari, vibranti di quella verità senza infingimenti e mediazione che è svelata dai corpi.
Ermanno Romanelli